Contributo politico
Prima di cominciare vorrei precisare i motivi di questo mio scritto. Come molti sapranno ritenevo assolutamente necessario celebrare un congresso vero e proprio che segnasse la nuova fase della politica cittadina, discutesse laicamente, sgombrando il campo da ogni sospetto di autoreferenzialità, sui motivi della sconfitta elettorale – che talvolta temo non abbia scosso più di tanto la classe dirigente del centro sinistra – e rinnovasse l’elaborazione del partito (e non necessariamente anche il gruppo dirigente, che probabilmente ha temuto la propria delegittimazione).
La volontà del gruppo dirigente andava in direzione diversa, ritenendo superfluo un momento di discussione a 360° sui destini del partito e di tutto il centrosinistra, ritenendo la strada da percorrere “self-evident”, almeno fino al prossimo congresso nazionale.
Nel frattempo nel partito si era prodotta una situazione di spiacevole pesantezza per il sottoscritto… L’apice si è avuto in occasione dell’organizzazione della festa de l’Unità e sulla “questione Sinistra giovanile”.
La mia volontà era chiara già dal 25 giugno di quest’anno, quando rassegnai le mie dimissioni da membro del Consiglio Direttivo. Le cose che scrissi allora sono state mistificate in più di un’occasione e autorevoli membri del partito le hanno giudicate alla stregua di uno sfogo per non aver accettato la mia presunta sconfitta elettorale (191 preferenze, senza quaterne e con un numero di candidati che superava i 700).
Questa relazione, quindi, ha lo scopo di fare chiarezza sul mio pensiero, rivolto sin dal primo momento dopo le elezioni ad una prospettiva politica diversa e certamente più faticosa da costruire. Analizzerò per sommi capi le cause della debolezza del centro sinistra ed il percorso che mi auguro il partito imbocchi per modificare i rapporti di forza politici, economici e sociali nella città. Per sommi capi, ma senza dovermi attenere ai tempi europei – più che funzionali in una struttura organizzata con un poderoso apparato di commissioni – e senza per questo infastidire quanti non sono interessati al mio pensiero.
Quindi, tranquillizzo tutti: non è in atto nessun assalto alla “dirigenza”, non c’è nessun piano segreto per sottrarre la sedia a qualcuno. Nella speranza che le voci fuori dal coro – come la mia – non siano per ciò stesso considerate sgradevoli seccature e stigmatizzate come scorrette perché ree di lesa maestà, tenterò di tenermi su un piano esclusivamente politico. Ho tentato in tutti i modi di discutere di questo negli anni precedenti e nelle settimane immediatamente successive alla sconfitta elettorale, ma non è stato mai possibile. Lo faccio ora, dopo aver lasciato questo gruppo dirigente che si autolegittima in una conferenza di organizzazione e la politica attiva, privato di quasi ogni entusiasmo e speranza di cambiamento. Anche i più maligni leggeranno in queste poche pagine molte teorie che ho tentato di sostenere e praticare nei miei ultimi sei anni di appassionante militanza politica. A chi mi dice che da fuori non si cambiano le cose rispondo che è vero, ma in questo partito non si cambiano nemmeno dall’interno.
Molfetta sta vivendo una delle maggiori crisi socioeconomiche della sua storia. L’indicatore che salta subito all’occhio in questi giorni è quello della criminalità. Per molti aspetti stiamo vivendo una situazione simile a quella di quindici anni fa, quando il disagio sociale si era manifestato con il volto più violento. Problemi vecchi – che avevamo semplicemente messo sotto lo zerbino (vedi operazione Reset) – e nuovi si intrecciano per destabilizzare ulteriormente quell’incerto equilibrio raggiunto nel decennio precedente. E’ evidente che per neutralizzare l’ondata di violenza ed illegalità non basti liberare la piazza dai piccoli e grandi criminali che l’affollano. L’escalation di violenza, a mio parere, non è destinata ad arrestarsi nel breve periodo se non verranno fornite risposte sociali, culturali e, naturalmente, economiche, più solide e convincenti.
Premesso che non è questa la sede per esaminare nel dettaglio la situazione economica della città – esame assolutamente necessario e da considerare costantemente in progress, mai esaurito, sempre da perfezionare e da eseguire senza essere schiavi di paradigmi preconfezionati (ad esempio lo sviluppismo senza se e senza ma o la riconversione del nulla in un nulla più bello) – vale la pena di sottolineare come Molfetta necessiti di un’idea coerente e condivisa di sviluppo. Gli attori dovrebbero immediatamente imboccare una strada di cooperazione percepita dalla popolazione come vincente. Il regime della paura e dell’incertezza è un deterrente drammaticamente efficace contro lo sviluppo e la pace sociale.
Per far questo occorre consapevolezza. Gli attori devono sapere cosa stanno facendo con uno sguardo molto più attento alla visione d’insieme e non concentrato esclusivamente sui propri affari (siano questi i business individuali dei nostri piccoli imprenditori, dei commercianti e degli artigiani, o la bagarre amministrativa, con le relative sfide elettorali). Un processo economico che renda virtuosi i risultati degli attori economici (e li ridistribuisca in qualche modo sotto forma di benessere collettivo) non è possibile senza la maturazione di una dimensione più collettiva degli attori. L’esempio del cartello dei commercianti del centro urbano esplica bene come la paura (a quanto pare infondata) del Fashion District abbia coagulato l’impegno di un’intera categoria, quella degli esercenti, già mobilitata con le giuste politiche del centrosinistra nello scorso decennio, ma mai così attiva. Lo stesso processo dovrebbe avvenire per la zona PIP e ASI, naturalmente con targets e strumenti differenti. Idem per gli operatori turistici, per la pesca, per l’agricoltura. Lo stesso tipo di esigenza si mimetizza nel mondo mutevole ed assai eterogeneo del lavoro.
Ma perché la politica possa tentare di guidare questi processi, invertendo l’attuale trend, caotico e fortemente pernicioso per il territorio, l’economia locale e per l’intera comunità, deve essere capace di interloquire con gli attori, avere contatti con essi, capire e rappresentare le loro istanze, riportandole su binari di interesse collettivo, collaborare con loro, progettando una città migliore, rendere loro possibile una partecipazione autentica. Fare politica eludendo questo compito significa rendere la politica poco più di uno scontro tra tifoserie, con l’allettante aggiunta della possibilità di distribuirsi prima o poi qualche posto a sedere. Nulla di tutto questo è stato fatto nei 5 anni che hanno preceduto le elezioni dello scorso maggio. Ad esclusione di un timido ed isolato lavoro di raccordo con
Lascio immaginare al paziente lettore che tipo di credibilità – e che conoscenza e capacità di rappresentare bisogni – abbia un partito ed una coalizione in prossimità delle elezioni nei riguardi di soggetti collettivi e categorie che ha ignorato negli anni precedenti. Spesso ci siamo avvalsi di tuttologi per disegnare gli scenari futuri della città. Forse è il caso di cominciare, con maggiore umiltà e senso critico, a percorrere una strada diversa. D'altronde l’unico partito di centrosinistra, protagonista dell’esperienza amministrativa dello scorso decennio, che ha imparato ad entrare in contatto con questi mondi – la mia è una constatazione che non vuole giudicare l’offerta politica, ma registra una relazione necessaria – è
I risultati elettorali sono sotto gli occhi di quasi tutti.
L’autoreferenzialità di tutto il centrosinistra è una sciagura di portata biblica. Essa è la prima e vera causa delle nostre sconfitte socioeconomiche, prima che elettorali. Il centro sinistra, con il suo impareggiabile – almeno nell’ultimo decennio – spessore politico ed intellettuale, è e rimarrà assolutamente subalterno a tutti i pezzi di ceto politico immorale ed affarista che stanno devastando la nostra città… la città dei vostri figli. Le cavallette andranno via solo quando avranno mangiato tutto il raccolto, se noi rimarremo chiusi al sicuro nelle nostre certezze etiche e politiche.
La base sociale e la questione del radicamento
Ho sempre ritenuto, e per questo talvolta sono stato persino deriso (perché troppo petulante e ripetitivo), che il nostro partito fosse privo di radicamento nella città. Come ho più volte ripetuto il radicamento che si deve prefigurare ai giorni d’oggi non può e non deve essere lo stesso di trent’anni fa. Aggiungo che non deve essere nemmeno un suo surrogato. Oggi i corpi intermedi a livello locale, però, non possono prescindere dalla costruzione di un filo diretto con pezzi di città e singoli cittadini di cui intendono interpretare i bisogni e la domanda politica. Nel mondo del lavoro, prima di tutto, ma anche in quello del “non lavoro”, dei deboli e nel mondo della cultura, del volontariato, dei giovani. Non penso minimamente che sia un lavoro facile. Ma ritengo che sia necessario. Mi pare davvero sgradevole chiedere un aiuto a sostenere le nostre idee ed i nostri candidati alle elezioni dopo che per anni non ci siamo mai preoccupati di entrare in contatto con loro, di far conoscere le nostre facce, il nostro impegno politico (e figuriamoci se ne abbiamo tutelato gli interessi).
Se potessimo virtualmente dividere la popolazione in categorie sociali, ci renderemmo conto di come i nostri margini di espansione – sotto il profilo elettorale – con l’attuale offerta politica sono ristretti in ambiti molto angusti, se si evita di considerare l’annessione di pezzi di elettorato da partiti limitrofi (il che è comunque positivo) come una vittoria politica sufficiente. I DS (come
Si aggiungano due elementi nell’analisi. Il primo è che la riproduzione culturale, propagandata soprattutto dagli attuali mezzi di comunicazione di massa, educa la popolazione ad un sempre maggiore individualismo e disinteresse alla categoria del collettivo. La seconda è che larga parte dei ceti medi molfettesi stanno subendo un lento scivolamento verso una condizione di sempre minore benessere. Vuoi per problemi generazionali (i figli del ceto medio trovano lavoro? Quale? Dove?), vuoi per riduzione del valore di guadagni, salari e cespiti di altro genere (mancando, peraltro, una cultura imprenditoriale si producono più facilmente dinamiche di sopravvivenza a fronte di modelli culturali che promuovono consumi oltre la portata della popolazione). Questo disagio non trova risposte coerenti nell’offerta del centrosinistra. O, meglio, non le percepisce in alcun modo. Non le percepirà mai da un comunicato stampa e, forse, nemmeno da un manifesto. Il consenso di questi cittadini lo raccoglieranno altri, per esempio coloro i quali si è esclusi dalla nostra coalizione attraverso il “patto etico”, salvo poi tentare una disperata quanto inutile alleanza alla vigilia del secondo turno. Io ero tra quelli che sostenevano questo contatto, ma non con i crismi individuati nella contrattazione successiva.
Più il livello sociale si abbassa, meno possibilità abbiamo di conoscere, capire e dare risposte ai problemi ed alle esigenze (spesso esigenze vitali: lavoro e diritti in primis) dei cittadini. C’è chi con lo sfruttamento dei deboli e dell’ignoranza fa le proprie fortune economiche e politiche. Noi lasciamo che questo accada, limitandoci a stigmatizzare tali comportamenti. Mantenendo una incrollabile estraneità ai bisogni del popolo. Fare politica per il popolo, naturalmente, non è fare demagogia e costruire similarmente “clientele rosse”. Fare politiche per e con il popolo significa cominciare a non essere più dei perfetti sconosciuti, convinti di avere la verità in tasta, significa scendere nell’inferno della vita quotidiana delle centinaia di cittadini e cittadine che vivono nel bisogno, dare loro un supporto, rendersi disponibili a capirne i problemi, difenderli dalle ingiustizie amministrative e sociali. Fare politica con e per il popolo significa spiegare loro le nostre proposte, non aspettare che essi si informino leggendo giornali o manifesti chilometrici. Fare politica con e per il popolo significa coinvolgere il popolo nella vita politica, nel ragionamento attorno alla cosa pubblica, rendendo chiaro come l’interesse collettivo ricade a cascata su di loro, sotto forma di interesse individuale.
Per farlo non basta l’angolo visuale attuale dei DS di Molfetta. Per farlo occorre un partito popolare moderno e sagace, che ponga al centro del suo ragionamento questo impegno e non un’overdose di tatticismi per conquistare la leadership della coalizione. La leadership della coalizione la si conquista sul campo, sui problemi, sulle soluzioni. Il mio impegno al servizio del partito in questi anni mi ha condotto ingenuamente (visto che oggi mi è stato persino rinfacciato, come se non avessi mai posto le questioni di cui sto trattando) a scegliere una linea che prediligesse il dialogo e la collaborazione alle spaccature. Il risultato è stato deprimente. Ogni pensiero ed ogni forza nel partito sono stati assorbiti nelle anguste dinamiche politiciste, rispetto alle quali pare non sia possibile trovare delle cause credibili della sconfitta, se non accusare i politicismi di altri, non ritenuti più all’altezza di dettare politicismi per tutti.
L’organizzazione del partito
Ho sempre ritenuto il modello organizzativo dei DS bizzarro, ma per quieto vivere, convinto anche da altri compagni, non ne ho fatto una questione di stato. In occasione dell’ultimo congresso emerse da più parti l’esigenza di formare una segreteria (io la ritenevo una cosa assolutamente necessaria, soprattutto in considerazione della ingente mole di impegni del segretario
L’impossibilità del segretario di occuparsi al 100% delle questioni organizzative del partito, come da lui palesemente espresso in più di un’occasione, ha comportato la sostituzione dello stesso con il Presidente dei Garanti in tutta la lunga fase di trattative pre-elettorali. La grottesca anomalia risiede nel fatto che il Collegio dei garanti riveste un ruolo di garanzia all’interno della sezione. Non trattasi di cariche politiche. Pongo questa questione, soprattutto in seguito ad alcuni episodi che mi pare non abbiano brillato per imparzialità e tutela delle funzioni di garanzia.
In secondo luogo spesso ai direttivi ed alle riunioni venivano convocati esclusivamente alcuni compagni. Erano costantemente esclusi da ogni comunicazione riguardante la vita di partito tutti i compagni della Sinistra giovanile; affidando solo alcune volte al sottoscritto – anche quando fu fatto presente di non averne più né autorità, né possibilità – il compito di contattare di tanto in tanto i giovani compagni, perlopiù in occasione di lavori manuali da svolgere.
Ma il “caso Molfetta” ha sempre posseduto dei caratteri di spiccata originalità. In primo luogo per il tesseramento. Purtroppo tutti i compagni (non tantissimi) che personalmente portavo al partito difficilmente hanno resistito più di un anno. Molti per motivi di lavoro, altri perché partiti a cercar fortuna altrove, i rimanenti per una graduale riduzione dell’interesse alla vita di partito (diciamo così). Sono convinto che tutti i compagni sappiano che l’obiettivo non sia arrivare a 200 tessere dopo le elezioni, ma mantenerne 100 per il 2007. Almeno è quello che io spero. Ma a chi mi dice che il risultato elettorale di maggio abbia segnato una nuova fase politica per il partito io mi permetto di ricordare il dato ben più significativo del ’98 e la successiva debacle del 2001. Così come ricordo, prima di tutto a me stesso, che la vita di un partito (e la capacità di incidere nella società) non si esaurisce nelle campagne elettorali.
Personalmente ritengo opportuno cambiare sede e spostarsi in luoghi più vicini al “popolo”, organizzare la sezione in modo che i cittadini possano incontrare il partito per discutere dei problemi amministrativi ed economici che li affliggono, realizzare un valido ed accattivante portale internet che renda possibile un contatto diretto con quanti frequentano il web (a patto che non divenga l’unico strumento di comunicazione). Reputo assai positiva l’integrazione del direttivo con i compagni sacrificati in lista in questa tornata elettorale (nella viva speranza che non vengano prosciugati come è successo a me).
Ritengo, inoltre, indispensabile che del direttivo facciano parte soprattutto persone appartenenti al mondo del lavoro, delle professioni, delle associazioni, del volontariato che vivono e conoscono la città. Occorre costruire un direttivo che sia rappresentativo del contesto in cui vorremmo operare. Spero che le “quote rosa” vengano rispettate, ma non solo per una questione numerica: mi auguro che le donne siano presenti e rappresentative del mondo femminile cittadino, a cominciare dalla consulta femminile. Costituire un direttivo dovrebbe essere importante quanto – se non di più – fare una lista per le amministrative. Almeno questo è il mio pensiero.
I tatticismi e le responsabilità
Come ho più volte ribadito mi assumo la responsabilità delle cose fatte. Quelle giuste e quelle no. Le mie dimissioni nascevano soprattutto dall’esigenza di discutere con serenità della linea politica adottata e dei suoi (ahimè) prevedibili risultati. Vorrei fare chiarezza su questo. Sono ancora fermamente convinto che i DS debbano essere il partito della democrazia e della cittadinanza attiva e rivendico come gruppo dirigente il fatto di aver messo al centro dell’agenda politica la questione. Ma proprio perché ci credo tuttora non mi accontento dei risultati miseri ottenuti nell’ultimo anno in termini di partecipazione. Alle nostre iniziative, non considerando i curiosi che intervenivano solo alle “prime”, hanno partecipato solo addetti ai lavori del mondo politico e pochi altri.
Come dicevo prima, ritengo fondamentale far entrare nelle fibre della nostra città un progetto politico e sociale credibile e condiviso. Il nostro impegno non è stato sufficiente. Per sgombrare il campo da qualsiasi insinuazione di giudizio preconcetto voglio sottolineare che ritengo assolutamente irrinunciabile questa strada. Ma per rendere gli sforzi efficaci occorre costruire quelle relazioni di cui si diceva prima con i mondi dell’economia e del lavoro che sinora sono stati estranei a questo tipo di rapporto, o che hanno avuto interlocutori privilegiati con intenzioni differenti alle nostre. Senza l’apporto di questi pezzi la nostra idea non sarà né condivisa, né vincente.
Per le primarie, invece, vorrei dire qualcosa di più. Credo sia stata un’operazione di alto livello politico non solo fare le primarie, ma anche condurre la coalizione ad accettarle. L’esito non era scontato. Dal primo momento ho espresso le mie congratulazioni a
A distanza di mesi da quell’esperienza, però, ritengo occorra una riflessione serena sull’accaduto. Le primarie, i forum e persino le segreterie di partito sono tutti strumenti, non sono fini. Ritengo d’aver io per primo confuso questa distinzione. Abbiamo fatto male i conti, abbiamo sbagliato. Lo strumento ci ha allontanato dai fini. Siamo stati troppo presuntuosi. Abbiamo rischiato e abbiamo perso. Sono convinto di interpretare il sentire di molti cittadini in questo. Personalmente, peraltro, temo che questo strumento possa essere interpretato come scorciatoia verso un’organizzazione della politica all’americana, più che come momento di partecipazione vero e proprio, rielaborato in chiave meridionale, contestualizzandolo nella realtà delle nostre città di famiglie numerose e di flussi elettorali controllabili. Anche in questo caso, tuttavia, una discussione antecedente e la predisposizione di regole più efficaci in tempi diversi (due o tre anni prima) avrebbero determinato esiti diversi. Mi convinco sempre più che un partito serio lavora alacremente non solo l’anno prima delle elezioni. Un partito vero esiste sempre. Anche un partito leggero (che, non sfugga a nessuno, ha fondi tali da permettersi una presenza sul territorio estremamente capillare attraverso mass media e convention, ma sempre presente).
Il gruppo dirigente di cui facevo parte ha fallito – ed io con esso – anche perché ha fatto la politica del tempo libero (il che non diminuisce il sacrificio di nessuno). Ogni spazio vuoto in politica viene occupato da qualcun altro. Noi ci siamo mossi facendoci largo tra le caselle occupate da altri. Non credo che il mio pensiero sia scandaloso ed irricevibile. Chiedevo di discuterne, esprimendo il mio disagio per quanto accaduto (staremo altri 5 anni all’opposizione!). Non percepivo il mio stesso sentimento attorno a me. Anzi… Ho pensato che sarebbe stato più facile vincere le comunali per le prossime 3 tornate, che registrare una presa di coscienza del gruppo dirigente. Probabilmente le cause della sconfitta non sono quelle individuate da me. E con grande probabilità la strada da percorrere non è quella da me indicata. Ma ho sperato fino all’ultimo che ci fosse un vento di novità a Molfetta. Non è ancora il tempo. Ho provato a discuterne in ogni modo, ma non ci sono riuscito. Provi ora chi è più bravo di me. Buona fortuna: ce ne sarà bisogno.